Andrea Zanzotto – Mi sono sentita a casa, quasi parente


Piace trattenere ancora su queste pagine sorrisi, sguardi, parole, moti d’animo, attimi di quel megatempo che coinvolge tutto l’uomo-poeta Zanzotto dalla sua nascita alla sua morte e oltre, frammenti di quell’umanità che era suo stile di vita umile, amabile, sempre ricco di stupori, raccolti in più di dieci anni d’intensa frequentazione con lui. Mi pare un’esistenza intera percorsa da tutto il suo ardore per l’uomo e le cose e dai riverberi in me riflessi, impressi in questa amicizia fra noi leggera1 durata fino alla sua morte.

La storia ebbe inizio ufficialmente ad Abano Terme il 9 maggio 2000, ore 16, con l’incontro del poeta con gli studenti dell’Istituto Alberti da me voluto, allora come coordinatrice culturale del Centro di Orientamento Levi-Montalcini di Abano Terme ideato dal premio Nobel Rita, incontro in cui Zanzotto, con la sua arte affabulatoria insieme al suo innato trasporto per i giovani, incantò i miei ragazzi dell’Aberti, da me da poco lasciati. Li intrattenne, usando parole comprensibili e raffinate, su argomenti vari veramente particolari: dallo squilibrio ecologico alle loro responsabilità da assumersi con spirito critico, dall’incitamento ad accostarsi sia agli stupori della conquista scientifica e del suo linguaggio sia a quelli della poesia la cui parola non solo è musicale ma anche universale. All’ultimo momento soltanto li avvicinò ai suoi versi con la lettura di “Per la finestra nuova”2 spiegando ai ragazzi le meraviglie del paesaggio, un misto di vegetazione e stelle, entrato d’improvviso nella casa con dietro orizzonti di nuovi sogni, fantasie. Fu un momento di grandi stupori per l’inattesa amicizia creatasi con un poeta così importante. Per me poi fu l’inizio di un discorso inaspettato che continuò negli anni attraverso lunghe conversazioni nella sua casa o al telefono sempre in un variare di argomentazioni dal quotidiano al sociale, dal letterario agli affetti, perfino al gatto. Forte, come già detto, era il suo sentimento dell’amicizia e lo percepivi a tal punto che ti sentivi non solo suo amico, ma quasi parente: così lessi un giorno tra le righe di Turoldo. Tanto che dopo anni di frequentazione, mi confidò l’attesa della nascita di un nipotino: era stupito e confuso che a quell’età lì, ormai avanzata, si sarebbe sentito chiamare nonno. “Che nonno sarò mai?”. Lo confortai al pensiero che questi nipotini avrebbero prolungato la nostra vita. E gli parlavo della speranza e dell’attesa di una bambina che mi facesse ritornare piccina accanto a lei riscoprendo la magia dell’infanzia. Li un po’ alla volta, ormai alla nascita, confermava la mia certezza di continuare a vivere nei nipoti, lui che dall’infanzia, insieme alla natura, traeva ispirazione come forza rigeneratrice, catarsi, tante volte espressa anche in Ligonàs3, quel mitico luogo di C’era una volta. Gli era così entrato nel cuore questo bimbo, Andrea Luigi, che al primo compleanno inventò la “Filastrocca sul micio Uttino”4, quasi persona di famiglia.

Un libricino raffinatissimo, in 114 esemplari numerati, editore il cugino Bernardi di Pieve di Soligo, con sovracoperta raffinata eseguita dalla mamma Elisabetta Di Maggio, autrice anche dei disegni del gatto, con uso di carta elegante su cui compare la filastrocca scritta a mano dal poeta, a lato riprodotta a stampa.

Vorrei che tu fossi più spesso con me
a veder com’è vario il teatrino
che col micio combino.

Egli ha tanti nomi perché
muta secondo quel che fa
ma Uttino soprattutto resterà.

Intanto si sente re del giardino
e gira a far la guardia con orari
alquanto misteriosi o immaginari…

Ma quando da fuori arriva un rumore
anche solo di un motorino
scappa fin dentro la cappa del camino.

Tante mattine fa l’equilibrista
ma non sempre riesce a spostarsi
sui tralci e cade fuori dalla pista.

Ma subito scatta su un altro appiglio
con volteggi speciali, e arriva a terra
con ricche acrobazie che vi sconsiglio.

Ciò capita d’inverno, quando lui si fa grosso,
di ciccia e di pelliccia
e, cantando, lo chiamo «Cioccio, Cioccio»!

Al dono di quel libretto mi sentii proprio una di casa, anzi parente. E pensai tra me che quell’uomo, a quest’età prestigiosa, aveva già scritto altre filastrocche nell’incontro indicibile con Federico Fellini, suo grande amico, filastrocche che sono entrate nel mondo del cinema e hanno incantato per la freschezza, per l’inventiva nativa in questi due maghi dell’immagine e della lingua uniti insieme. In “Zanzotto: io e Fellini” Antonio Costa5 dice che su richiesta del grande regista per il Casanova “sono nati Recitativo veneziano e Cantilena londinese6. La prima per la sequenza d’apertura del Casanova, quella in cui viene fatta emergere dal Canal Grande una stupefacente testa di donna; un rituale di pura invenzione felliniana, cui Zanzotto aggiunge arcane sonorità veneziane. L’altro era una filastrocca in petèl della gigantessa di origini venete che Casanova incontra a Londra. L’incontro di Zanzotto con Fellini avviene all’insegna del dialetto. È nel lessico familiare della propria infanzia, nelle sonorità magiche del petèl, che Andrea Zanzotto scopre le profonde affinità con il cinema, lingua primitiva, arcaica, mitica”. E pensai che quel poeta, amico e creatore accanto a Fellini, era riuscito a ritornare fanciullo raccontando nella nostra filastrocca il mondo felino con i suoi istinti, le sue abitudini con voce affettuosa, cantilenante trasmettendo così il suo amore per il gatto al nipotino per avvicinarlo più a sé, stringerlo alle piccole cose del suo mondo di uomo grande, in un colloquio che si prolunga per 11 pagine, senza mai perdere il suo stupore, il suo cuore fanciullo pur nell’habitat della quotidianità. E il piccolo Andrea Luigi così interiorizza i versi del nonno da interpretare il suo ruolo nell’intervista fatta da un regista piombato in casa con tutti i suoi ingranaggi per registrare le parole di Andrea il grande. Ma il piccolo seppe ben rispondere con prontezza e divertimento. Immaginarsi con quanto stupore il Poeta mi raccontò di questo bambino seduto sul suo trono in piena intervista, tanto da rivelare nel volto segni di una nuova freschezza e negli occhi una luce indicibile.

Una sera, nell’ora ultima di luce, rividi in lui quell’espressione ormai a me nota: accompagnandoci affettuosamente alla porta come sempre, offrì a me e a mio marito l’indimenticabile esperienza di quel mondo paesano in lui e intorno ancora vivo, palpitante: “Vedete quell’uomo che passa in bicicletta? è il nostro postino” e mio marito: “A quest’ora il postino che gira ancora per il paese!”, “Noooo, è il postino dei nostri scherzi” pronto a rispondere con un’aria sorniona. E ci raccontò di come passasse di casa in casa portando un bigliettino con lo scherzo proposto per uno degli amici, ignaro che sarebbe stato fatto il giorno dopo. Noi increduli che a quell’età si potesse ancora giocare, diventammo suoi complici-bambini di questa pagina di vita autentica, paesana, refrain di altri tempi, della coralità vissuta nella contrada Cal Santa, dello spirito che animava i rapporti con Nino Mura incoronato Duca di Rolle, poi ribattezzata Dolle. Partendo, ancora stupiti di questo ardore, parola che lui particolarmente mi raccomandava, inseguimmo per un po’ il postino che si fermava in varie case consegnando una busta. Il resto è mistero ma quello che rimane è l’inventiva giocosità paesana, ormai scomparsa dalla nostra società e certamente, secondo lui, anche tra quei giovani studenti incontrati ad Abano.

Ed ecco una famosa telefonata, piena di entusiasmo e di vitalità, con il suo annuncio dell’uscita di quel famoso libro in prosa e poesia per lo più in dialetto, “I colloqui con Nino”7, l’amico contadino Nino Mura, che rappresenta poi il costume di quella vita paesana capace di divertirsi con poco, animata da tante figure locali ma anche da scrittori famosi come Giovanni Comisso, Ferdinando Camon, Diego Valeri e altri notabili del paese partecipi a questi momenti scherzosi, festosi, a base di salame, pan biscotto, vino rosso, come racconta l’autore.

Civiltà ormai estinta, dominata da un individualismo acceso che determina una chiusura in se stessi e pure la solitudine. Mi chiedeva, molto animato al telefono, di aiutarlo a diffondere questa sua opera in cui tra l’altro si parlava anche del nonno veterinario dei miei amici gemelli con cui avevo trascorso da piccola a Pieve di Soligo indimenticabili ore da favola. Si diceva anche delle sue dimensioni corporee, già a me sottolineate da Zanzotto, per cui avrebbe avuto bisogno di servizi igienici adeguati. E ancora mi risuona la sua risata vivace e divertita al racconto in puro dialetto solighese: scherzose allusioni prive di malizia. Un libro quindi che viveva nel C’era una volta e che cercava di trattenere in vita palpiti, voci di un mondo ormai scomparso, parte del suo archivio memoriale a cui ricorreva per fare scrittura e trasmetterla al dopo. D’altra parte la mitica contrada Cal Santa in cui era vissuto frequentando l’asilo Maria Bambina, tra gli affetti della nonna paterna e delle zie e le tradizioni paesane, anni e luoghi della sua formazione, rappresentano proprio quell’archivio memoriale or ora citato, da cui lui trarrà il materiale per la sua poesia facendo rivivere così le persone della sua famiglia, i dipinti del padre, i vecchi mestieri. In questo suo amore per la coralità della contrada, mi sento legata a lui nel mio forte sentire via Gabelli, luogo mitico della mia nascita, infanzia, formazione, di memorie storiche che ho cercato di trattenere probabilmente sollecitata anche dal Poeta in “La stanza alta dell’attesa tra mito e storia”8. Questa affermazione non deriva dalla mia autostima, ma è dimostrazione che ognuno di noi possiede un lucus quale è l’infanzia, scrigno di ricordi e verità, vetrina di figure, volti, incontri umani in cui riconoscersi, ritrovare il senso del proprio presente. Questo è l’universale amore per le proprie radici, per il latte materno succhiato da tanti poeti, dallo stesso Pasolini di cui parla Turoldo nella postfazione a “Mistieròi”9 tradotto in friulano. Ascoltiamo le sue parole: la vera umanità non può avere che una radice sola, la fedeltà alla “madre” … e alla madre terra. […] Ed ora, accanto alla gioia, come dicevo, di sentirmi imparentato a Zanzotto, almeno per questo amore alle origini, dirò anche la mia gratitudine verso di lui per aver cantato il poema degli umili, di quelli che portavano sulle proprie spalle il carico dei valori… degli antichi mestieri, espressione della nostra civiltà contadina.

D’altra parte Zanzotto, in una sua prefazione all’opera di padre David Maria Turoldo, altro segno di amicizia, aveva già affermato che la sua poesia nasceva dalla madre – che è anche madre terra – e dal latte succhiato della lingua materna. Ecco, spinto da questa umanità, da questo linguaggio infantile solighese, il petèl di cui macchia i suoi versi, da questo profondo sentire le sue radici, Zanzotto vorrebbe salvare il salvabile del suo mondo, della vita, dal diluvio universale. La mia riflessione sull’intimo rapporto Zanzotto-Turoldo appartiene sempre ai dieci anni di frequentazione del poeta, anzi è conseguenza del suo essermi divenuto maestro, guida nel capire la sua vita, anche attraverso i suoi tanti legami amicali, come impegno-senso-ruolo della poesia stessa e ad avvicinarmi ancor più alla sua lettura della natura, della storia, ai suoi colloqui familiari10. E mi sento quasi parente quando leggo il ricordo della più cara delle mie zie “Onde éla mai la pi cara de le mé jèje…”11, emblema di tutte le zie che hanno attraversato la nostra vita, come la mia zia Pina, incidendo nella nostra formazione. Così infatti Zanzotto: “Dove sono. Dove è mai la più cara delle mie zie / che scriveva per carnevali e feste / i dialoghi in poesia, perfino / con dentro parole in latino / che tanti li ricordano ancora; / «si era data al bere» dicevano, / per passar sopra alla malora. / Chi sa. Ma soltanto lei sa quanto / in questo scribacchiare le assomiglio.” E così quando leggo i versi dedicati a M., la sua futura moglie, ritrovo in essi l’incantamento delle nostre vicende amorose: “… Ma noi sediamo intenti / sempre a una muta fedele difesa. / Tenera sarà la mia voce e dimessa / ma non vile, / raggiante nella gola / – che mai l’ombra dovrebbe toccare – / raggiante sarà la tua voce / di sposalizio, di domenica…”12. Mi sono sentita a casa, quasi parente di queste due figure femminili perché la sua poesia, pur articolata poi in percorsi del pensiero altri, esonda di quell’umanità in cui ci riconosciamo con le nostre storie minute che Zanzotto rende universali.

Questi aspetti evidenziano le varie sfaccettature dell’anima di Zanzotto che, pur mantenendo sempre quella purezza propria del mondo infantile, sapeva guardare dalla sua insula al mondo intero comprendendo i pericoli di quel degrado del sacro a cui stava assistendo e insieme della furia del progresso scorsoio di cui eravamo ormai già vittime, oggetto di un’ampia conversazione con Marzio Breda in “In questo progresso scorsoio”13.

Lui così attento agli altri, così stretto in molte amicizie, così collaborativo con artisti di ogni genere, presente come sentinella dei valori in trasmissioni radiofoniche o interviste giornalistiche, lui con la sua poesia talora difficile da comprendere, tutti in realtà ci coinvolge partecipi della stessa umanità, civiltà veneta e oltre. La sua scrittura infatti, soggetta a continue ricerche linguistiche come anche in “Conglomerati”14 nella visione utopica di una lingua pentacostale, rappresenta la coscienza europea che si rivela a noi con i suoi messaggi spirituali, etici, poetici sempre di grande spessore valoriale.

Ora, nel festeggiamento del suo centenario, oltre la selva dei percorsi critici impegnati a sezionare la sua opera e il suo linguaggio in un’accanita ricostruzione, comprensione, il Poeta mi appare quale miracolo nativo della sua terra espanso dal suo pensiero ovunque (come) … una scintillazione che pare casalinga / ed invece è stellare … 15. E io che ho avuto l’onore, il privilegio, la gioia di frequentarlo per dieci e più anni intensamente, io che trattengo tutto questo come prezioso patrimonio in me, mi unisco alle parole di Carlo Ossola16: “La poesia di Andrea Zanzotto è infatti coscienza europea: attraversa la lingua-madre del dialetto veneto, medita le “ustioni verbali” del Novecento di Artaud, Michaux, Celan; ricompone la lezione dei classici; collabora con Federico Fellini alla più alta cinematografia di affetti e memoria. Tradotto in francese, inglese, tedesco, Andrea Zanzotto è, oggi, il poeta del “cuore d’Europa”, «Europa melograno di lingue» (com’egli ha definito): da un luogo amato e mai abbandonato, egli parla all’umanità intera, con le “lanugini” della lingua, con il filo ininterrotto della civiltà italiana”.

Premesse dell’incoronazione di Nino a Duca di Rolle con da sinistra Giovanni Comisso, Nino Mura e Andrea Zanzotto. Anno 1956 nel podere di Rolle. Da sinistra Elsa Vazzoler, Andrea Zanzotto, Nino Mura, Marisa Zanzotto con i figlio Giovanni e Fabio per la rappresentazione teatrale di “La coscienza incerta” di Andrea Zanzotto.

Le due immagini sono tratte “Dai colloqui con Nino”, Grafiche Berbardi, 2005.

1 L’ amicizia fra noi leggera in “Il sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto”, 2013, Edizioni Ets, Pisa

2 Da IX Ecloghe, in A. Zanzotto, Le poesie e le prose scelte, Milano, Mondadori, 1999

3 In Zanzotto “Sovrimpressioni”, Collana Specchio Mondadori, 2001

4 In Zanzotto “Filastrocca del micio Uttino”, Grafiche V. Bernardi, 2005

5 Antonio Costa in Corriere del Veneto 20 settembre 2011, pagina 12

6 In Zanzotto, La Beltà (1968) in “Zanzotto, Le poesie e prose scelte”, Milano, Mondadori, 1999

7 Andrea Zanzotto, “I colloqui con Nino”, Il Ponte del Sale, 2005

8 Maria Luisa Daniele Toffanin, “La stanza alta dell’attesa tra mito e storia”, Valentina Editrice, 2019, Padova

9 Andrea Zanzotto e Amedeo Giacomini, “Mistieròi/Mistirús”, Piccola Biblioteca di Autori Friulani, Biblioteca civica Pordenone, 2012

10Dietro il paesaggio (1951), Il galateo in Bosco (1978), Vocativo (1981) in “Zanzotto, Le poesie e prose scelte”, Meridiani Mondadori, 1999

11 Da Idioma, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999

12 Da La vita silenziosa, in IX Ecloghe, in A. Zanzotto, Le poesie e le prose scelte, Milano, Mondadori, 1999

13Andrea Zanzotto e Marzio Breda, “In questo progresso scorsoio”, Garzanti, 2009

14 Andrea Zanzotto, “Conglomerati”, Collana Specchio – Mondadori, 2009

15 In Altri topinambur, da Meteo, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999

16 Carlo Ossola, “Nessun Consuntivo – i 90 anni di Andrea Zanzotto”, Antiga Edizioni, 2011