Andrea Zanzotto – Mie frequentazioni

Piace trattenere ancora su queste pagine sorrisi, sguardi, parole, moti d’animo, attimi di quel megatempo che coinvolge tutto l’uomo-poeta Zanzotto dalla sua nascita alla sua morte e oltre, frammenti di quell’umanità che era suo stile di vita umile e amabile, raccolti in più di dieci anni. Mi pare ora un’esistenza intera questa intensa frequentazione con lui, percorsa da tutto il suo ardore per l’uomo e le cose e dai riverberi in me riflessi, impressi oltre l’amicizia fra noi leggera, oltre le affermazioni illuminanti dello stesso Convegno organizzato nel primo anniversario della sua dipartita*. Questa storia ebbe inizio ufficialmente ad Abano Terme il 9 maggio 2000, ore 16, con l’incontro del poeta con gli studenti dell’Istituto Alberti da me voluto, preceduta da incontri a distanza in varie cerimonie ufficiali seguite per devozione alla poesia e alla cultura, da altri più ravvicinati come avvenne nell’aula H di Palazzo Maldura, su invito di Mario Richter, ove Zanzotto espose agli studenti la sua personale esperienza della letteratura francese. In quella nostra, pur rapida conoscenza, mi aveva affascinato la sua arte affabulatoria insieme al suo innato trasporto per i giovani catturati dal suo dire amabile, semplice ma colto, indice di grande sapienza. Ora se un pomeriggio d’inverno, d’autunno un personaggio penetra d’improvviso fra le tue nebbie padane, ti illumina concretizzandosi nel Poeta atteso, tu entri nell’atmosfera magica di C’era una volta, di quel Ligonàs che ormai mi scorre dentro con la forza rigeneratrice della natura e dell’infanzia. E tutto un mondo remoto riaffiora da Pieve di Soligo: i miei soggiorni nella vecchia casa dei gemelli, nipoti della veneziana Jone e del veterinario del paese, i giochi insieme lungo il Solighetto, attimi di anni fanciulli, ignari dell’esistenza là di un poeta che in quel tempo dava alle stampe “Dietro il paesaggio”. Un mio mondo realmente vissuto che un giorno avrei raccontato a quel poeta amante dei Colli solighesi ma anche Euganei, attento a queste trame di vita, creando tra noi una complicità propria del mondo di C’era una volta. In un brulichio di ricordi prendeva corpo con forza in me il desiderio di avvicinarlo e di fargli incontrare i miei ragazzi dell’Alberti da poco lasciati, avvertendo il comune interesse, la premura per il presente e il futuro dei giovani: entrambi eravamo gente di scuola e partecipi al vivere civile. E questo mi donò un impeto nuovo per corteggiarlo con una serie di telefonate: ero allora coordinatrice culturale del Centro di Orientamento Fondazione poi Associazione Levi-Montalcini di Abano Terme, ideato dal premio Nobel Rita Levi-Montalcini. E, ottenuto il recapito telefonico da un’insegnante dell’Albinoni di Tencarola, organizzatrice di un precedente incontro con il Nostro, altra riprova del suo sincero amore per gli studenti, ardii comporre quel magico numero intrattenendomi già amabilmente con lui pur sofferente in quel periodo d’insonnia riscoprendo, grazie proprio al telefono, la sua carica artistica e insieme la sua fragilità umana. Rinviai il mio progetto a tempi migliori e a maggio lo risentii puntando sul bel tempo e sull’attesa dei ragazzi. E finalmente un giorno, con una delle sue famose telefonate, fissò per l’incontro il 9 maggio 2000 ore 16, cioè dall’oggi al domani: fu una scarica di adrenalina per gli insegnanti, per noi del Centro preoccupati anche per il viaggio. Ma tutto si trasformò in un approccio di grande simpatia, affabilità come se ci fossimo conosciuti da sempre e questa era un’altra delle sue grandi virtù, l’ho capito nel tempo, di mettere sempre le persone a loro agio con gran rispetto per chi gli era vicino, e di aprirsi loro con disponibilità di cuore con la sua dolce e cantilenante parlata solighese in sintonia con la sua anima. Gli argomenti più coinvolgenti durante il tragitto furono lo scopo dell’Associazione, il giudizio sui ragazzi e le loro attese, il legame con Padova sua città universitaria e anche con il suo Maestro Diego Valeri, i Colli Euganei, e soprattutto la sorte del paesaggio delle sue colline, deturpato da una cultura industriale aggressiva e cieca. Con la stessa semplicità e amabilità catturava l’attenzione dei ragazzi, instaurando un rapporto con loro di amicizia. Ne è prova il silenzio nell’aula magna. Sempre attento alle problematiche giovanili colloquiava con loro delle responsabilità del secolo appena concluso, privo di attese, di quella festosità da lui sperimentata nel suo paese con gli amici (solo più tardi comprenderò la valenza di questa affermazione), ancora dello squilibrio ecologico (profetica sua visione) e della sua lingua in una perdita di identità. Suasivamente li incitava ad affermare il proprio spirito critico, a sapersi accostare agli stupori della conquista scientifica e del suo linguaggio, ma anche a quello della poesia che non solo è musicale ma anche universale, sempre usando parole comprensibili e raffinate. Già questa era espressione di vita e poesia insieme. Solo verso la fine, sollecitato, leggeva “Per la finestra nuova” spiegando ai ragazzi la meraviglia del paesaggio, un misto di vegetazione e stelle, entrato d’improvviso nella casa con dietro orizzonti di nuovi sogni, fantasie. Dopo aver gustato con piacere delicati biscotti offerti dalle insegnanti (un giorno avrei dovuto ricordarmelo!), confidava il suo progetto di scrivere un libro su un amico contadino, storia in cui avrei avuto la mia parte, ma a saperlo…! Dopo queste ore di comunione d’anime conquistate dalla semplicità e dall’umanità di un uomo che era poeta, si giunse a uno scambio di saluti augurali, affettuosi, sinceri. Poi il viaggio di ritorno fu rilassante, vivace, dominato soprattutto da discussioni tra il poeta, mio marito Massimo ed io, sempre sull’inquinamento in generale, incompreso per lo più dalla gente, e in particolare della sua amata terra, sua isola, rifugio da cui aveva rapporti con il mondo intero. E si rivelava ancora curioso sull’attività dell’Associazione, sulle nostre attività personali di scrittura, sul saggio su Sebastiano Schiavon a cui lavorava Massimo, con nuove riflessioni sui valori della scuola e su questi ragazzi in cui avvertiva l’assenza del puro divertimento. E ripensava a quelli della Marca Trevigiana difficili, inquieti, che addirittura si drogavano con la grappa, conseguenza di una società opulenta, assente di fronte a questa problematica. Un uomo sempre attento agli altri lui, inserito nel contesto sociale, didattico e storico del momento ma pronto anche con fanciullesco entusiasmo a sostare nella vecchia pasticceria a Cittadella onorandola, rivolgendo pure un pensiero affettuoso al comune amico Bino Rebellato. Avrei dovuto ricordarmi di questa sua golosità quella volta che, in occasione di una visita, gli portai in dono caramelle al rabarbaro che suscitarono questa sua esclamazione: “Ma queste e serve per la cacchetta, no e se dolci. Ea me ga capio!”. Parlavamo sempre in dialetto, la lingua del mondo contadino veneto (guida per individuare indizi di nuove realtà che premono ad uscire) che in quell’occasione divenne una musica scherzosa resa frizzante da un malizioso sorriso. E così nelle successive visite a donargli cioccolatini che divorò in parte sempre con quel sorriso fanciullo di chi è colto a fare qualcosa di proibito. Altre volte era il dolce di Cittadella o altri tipi accolti come segno di amicizia, di confidenza. Sì perché, concludendo il racconto del viaggio a Pieve, ci salutammo con un “Arrivederci, a presto”. Così il discorso veramente continuò attraverso lunghe conversazioni nella sua casa o al telefono sempre su argomenti vari che andavano dal quotidiano al sociale, dal letterario agli affetti, perfino al gatto. Forte era il suo sentimento dell’amicizia e lo percepivi a tal punto che ti sentivi non solo suo amico, ma quasi parente, come lessi un giorno tra le righe di Turoldo. Tanto che dopo anni di frequentazione, mi confidò l’attesa della nascita di un nipotino: era stupito e confuso che a quell’età lì, ormai avanzata, si sarebbe sentito chiamare nonno. “Che nonno sarò mai?”. Lo confortai al pensiero che questi nipotini avrebbero prolungato la nostra vita. E gli parlavo della mia Giulia e della gioia che provavo perché mi faceva ritornare bambina accanto a lei riscoprendo la magia dell’infanzia. E lui un po’ alla volta, ormai alla nascita, confermava la mia certezza di continuare a vivere in loro. Lui che dall’infanzia, insieme alla natura, traeva ispirazione come forza rigeneratrice, catarsi, tante volte espressa come nel già citato Ligonàs. E gli era così entrato nel cuore questo bimbo, Andrea Luigi, che al primo compleanno inventò per lui delle filastrocche di cui era protagonista il gatto Uttino, “Filastrocca sul micio Uttino” (2005), quasi persona di famiglia. Un libricino raffinatissimo, in 114 esemplari numerati, editore il cugino Bernardi di Pieve di Soligo, con sovracoperta raffinata eseguita dalla mamma Elisabetta Di Maggio, autrice anche dei disegni del gatto, con uso di carta elegante su cui compaiono le filastrocche scritte a mano dal poeta (DA RIPORTARE UNA FILASTROCCA?) e a lato riprodotte a stampa. Al dono di quel libretto mi sentii proprio una di casa. In altre conversazioni il poeta ritornerà ancora su questo bambino e ne parlerà come forza vitale, fantastica perché prenderà perfino il suo posto durante l’intervista fatta da un regista nel salotto buono e risponderà con sicurezza alle domande poste. E il poeta a raccontare tutto fiero, curioso, ringiovanito, con una freschezza nuova negli occhi, nel volto. Argomento sempre vivo, quello dei bambini, che si ricollegava al mio libro che stavo da tempo progettando sull’infanzia “E ci sono angeli” (2010): era mia intenzione parlare dei bambini del dolore e di quelli della gioia, soffermandomi su questa vetrina di umanità infantile che ancora soffre la fame di fronte ad un mondo indifferente alla sorte di questo nostro patrimonio del futuro. E lui annuiva, mi ascoltava molto interessato, e io gli promettevo che glielo avrei donato ma non sono giunta in tempo. Per dire la sua attenzione ad ogni mega situazione in cui scorreva la storia umana. Quella volta poi che gli regalai una rivista letteraria e un quaderno del Cenacolo di Poesia di Praglia, lui si infervorò e mi incitò a progettarne una per il Veneto insieme al comune amico Richter, in quanto secondo lui il territorio ne era sprovvisto. Ci avrebbe collaborato anche lui legatissimo com’era a Padova, ai Colli e pure all’amico Mario, che ricopriva la cattedra già di Diego Valeri. Quindi queste nostre conversazioni letterarie erano sempre piene di avventura e di progetti e io, soddisfatta della proposta, mi proponevo di parlarne con Richter e valutare la possibile realizzazione che si rivelò poi ardua. Questo per sottolineare la vivacità della sua mente sempre pronta alla novità: lui non si negava a nulla, neppure alle traduzioni già di Boudelaire, Rimbaud, Hölderlin… e perfino dal greco di alcune lettere di San Paolo per Neri Pozza (vedi Atti del Convegno). Continuava contemporaneamente a sperimentare nuove imprese linguistiche come in “Sovrimpressioni” (2001) e “Conglomerati” (2009) in una visione utopistica della lingua poetica pentacostale capace di accogliere tutte le altre lingue in un sogno di poesia universale: annuncio fatto in un’intervista riportata su Radio Rai Tre una domenica mattina. Ne parlammo in una successiva telefonata in cui esprimeva la coscienza del suo compito di rispondere ai quesiti di questa società in crisi attraverso ogni forma di comunicazione: ecco le interviste radiofoniche e giornalistiche in cui era sempre presente con la forza della sua parola onesta e preveggente. Ecco la conversazione ad ampio raggio con Marzio Breda in “In questo progresso scorsoio” (2009). Veramente si spendeva a favore degli altri: ancora gli sono grata per la sua quarta di copertina sul mio “Per colli e cieli insieme mia Euganea Terra”. Altro comune denominatore tra noi era l’amore per i colli e per i luoghi come contenitori di vita, di storia e di emozioni: i suoi Montello, Rolle, i  Palù…  A proposito ricordo ancora l’emozione di quella sua telefonata quando ormai il libro era in via di stampa. Mi disse: “Ho ripensato ai suoi colli. Scriva!”. E mi dettò la sua meditata recensione subito rispeditagli per sistemare le virgole al posto giusto per quella sua attenzione estetica. Di queste sue telefonate trattengo in me come dono prezioso l’attenzione, la gentilezza, l’umiltà dimostratemi in questa sua età ormai avanzata che rispettavo profondamente. Tante volte gli portavo le mie opere appena pubblicate e mi bastava il suo “c’è del buono, non si prova un pugno allo stomaco nel leggerle – tutto scivola via – la riconoscerei tra mille”, mi bastava questo per acquistare sicurezza e procedere nel mio lavoro. Talora pensavo che avrei potuto chiedergli di più ma non volevo disturbarlo in questa sua età solenne, turbata da malinconie, disagi fisici di cui parlavamo spesso al telefono, in quanto frequentava medici casualmente miei parenti. Una sera d’inverno, particolarmente piovosa, ad esempio, lo chiamai per condividere le comuni meteoropatie, per sfogarci sul tempo, per fargli compagnia. E lui a raccontarmi le sue abitudini quotidiane, la sua cena, i suoi giochi con la matita con la gatta che tentava così di ammaestrare. E io a dirgli dei miei amati gatti, tanti: uno accompagnava mia madre anche in chiesa, un’altra, Juve, dormiva sulla scrivania di mio figlio accompagnandolo nei suoi studi dalle medie all’università. Sentivo che si rilassava in queste semplici chiacchiere: anche questa era poesia delle piccole cose, dalla Szymborska apprezzata. In queste occasioni, tante le telefonate tra noi di tale genere, magari le avessi registrate! Ero e sono onorata di essergli stata accanto in questo tempo che passava così inesorabile e in cui più avvertiva l’esigenza di raccogliere le sue cose, riordinare le sue poesie allontanando le malinconie. Lui mi aveva capita e sapeva che poteva contare su di me. Ed ecco un’altra famosa telefonata con il suo annuncio che era uscito quel famoso libro in prosa e poesia per lo più in dialetto, “I colloqui con Nino” (2005), l’amico contadino Nino Mura che rappresenta poi il costume di una vita paesana che sapeva divertirsi con poco, animata da tante figure locali ma anche da scrittori famosi come Giovanni Comisso, Ferdinando Camon, Diego Valeri e altri notabili del paese che partecipavano a questi momenti scherzosi, divertenti, festosi, a base di salame, pan biscotto, vino rosso, come racconta l’autore, tipici proprio del nostro Veneto. Civiltà ormai estinta, dominata da un individualismo acceso che porta come conseguenza anche una chiusura in se stessi e pure la solitudine. Mi chiedeva, molto animato al telefono, di aiutarlo a diffondere questa sua opera in cui tra l’altro si parlava anche del nonno veterinario dei miei amici gemelli e delle sue dimensioni corporee, già a me sottolineate da Zanzotto, per cui  avrebbe avuto bisogno di servizi igienici adeguati. E ancora mi risuona la sua risata vivace e divertita al racconto: scherzose allusioni prive di malizia. Un libro quindi che viveva nel C’era una volta e che cercava di tratteneva in vita palpiti, voci di un mondo ormai scomparso, per una sua scelta poetica e umana sempre di ricorrere al suo archivio memoriale per fare scrittura e trasmetterla al dopo. Alla telefonata aderii con entusiasmo alla sua proposta e ci accordammo così per l’incontro successivo per la consegna dei libri che volentieri diffusi. D’altra parte la mitica contrada Cal Santa in cui era vissuto frequentando l’asilo Maria Bambina, tra gli affetti della nonna paterna e delle zie e le tradizioni paesani, anni e luoghi della sua formazione, rappresentano quell’archivio memoriale,  già citato, da cui lui trarrà il materiale della sua opera facendo rivivere le persone della sua famiglia, i dipinti del padre, i vecchi mestieri. In questo suo amore per la coralità della contrada, mi sento legata a lui nel mio forte sentire via Gabelli, luogo mitico della mia nascita, infanzia, formazione, di memorie storiche che ho cercato di trattenere probabilmente interiormente sollecitata anche dal Poeta. Questa  affermazione non deriva dalla mia autostima, ma è dimostrazione che ognuno di noi possiede un lucus sacro quale è l’infanzia, scrigno di ricordi e verità, vetrina di figure, volti, incontri umani in cui riconoscersi, ritrovare il senso del proprio presente. Questo è l’universale amore per le proprie radici, per il latte materno succhiato da tanti poeti, di cui parla Turoldo nella stessa postfazione a “Mistieròi” (2012) tradotto in friulano. Ascoltiamo le sue parole: la vera umanità non può avere che una radice sola, la fedeltà alla “madre” … e alla madre terra. […] Ed ora, accanto alla gioia, come dicevo, di sentirmi imparentato a Zanzotto, almeno per questo amore alle origini, dirò anche la mia gratitudine verso di lui per aver cantato il poema degli umili, di quelli che portavano sulle proprie spalle il carico dei valori… degli antichi mestieri, espressione della nostra civiltà contadina. D’altra parte Zanzotto in una sua prefazione all’opera di padre David Maria Turoldo, altro segno di amicizia, aveva già affermato che la sua poesia nasceva dalla madre – che è anche madre terra – e dal latte succhiato della lingua materna. Ecco, spinto da questa umanità, da questo linguaggio infantile solighese, il petèl di cui macchia i suoi versi, da questo profondo sentire le sue radici, Zanzotto vorrebbe salvare il salvabile del suo mondo, della vita, dal diluvio universale. La mia riflessione sull’intimo rapporto Zanzotto-Turoldo appartiene sempre ai dieci anni di frequentazione del poeta, anzi è conseguenza del suo essermi divenuto maestro, guida nel capire la sua vita, anche attraverso i suoi tanti legami amicali, come impegno-senso-ruolo della poesia stessa. Ma una sera, nell’ora ultima di luce, accompagnandoci affettuosamente alla porta come sempre, offrì a me e a mio marito l’indimenticabile esperienza di quel mondo paesano in lui e intorno ancora vivo, palpitante: “Vedete quell’uomo che passa in bicicletta? è il nostro postino” e mio marito: “A quest’ora il postino che gira ancora per il paese!”, “Noo, è il postino dei nostri scherzi” pronto a rispondere con un’aria sorniona. E ci raccontò di come passasse di casa in casa portando un bigliettino con lo scherzo proposto per uno degli amici, ignaro che sarebbe stato fatto il giorno dopo. Noi increduli che a quell’età si potesse ancora giocare diventammo suoi complici-bambini di questa pagina di vita autentica, paesana, refrain di altri tempi, della coralità vissuta nella contrada Cal Santa, dello spirito che animava i rapporti con Nino Mura incoronato Duca di Dolle poi ribattezzato Dolle. Partendo, ancora stupiti di questo ardore che percorreva le strade, inseguimmo per un po’ il postino che si fermava in varie case e consegnava una busta. Il resto è mistero ma quello che rimane è questa inventiva giocosa ormai scomparsa dalla nostra società e certamente tra quei giovani studenti da lui incontrati ad Abano allora. Uno spirito vivace e sempre collaborativo, come già sappiamo, con artisti di ogni genere, con Fellini in particolare documentati dai suoi versi, incontri, lettere ma anche con pittori, come testimoniano ancora negli anni precedenti eventi di poesie zanzottiane e opere grafiche presentate insieme, espressione della creatività veneta. E viva pure è la sua disponibilità per il giornalista del Giornale di Messina Giuseppe Ruggeri da me incontrato al Premio Patti in Sicilia dove, consegnandomi il riconoscimento (la pubblicazione dell’opera) per “A Tindari – da un magico profondo” espresse note critiche di apprezzamento sulla plaquette. In tale occasione Giuseppe mi raccontò delle sue ricerche sui rapporti degli isolani Lucio Piccolo e Tomasi di Lampedusa con il continente e in particolare della loro partecipazione, da Capo Orlando in Sicilia, al Convegno di San Pellegrino Terme del 1954 in cui sembra che il Nostro lì presente avesse stretto rapporti con il poeta siciliano. Ruggeri, sentendo che conoscevo Zanzotto, desiderava saperne di più per farne testimonianza in un libro che stava scrivendo e mi affidò delle domande da portare al Poeta. Divenni così un trait d’union fra la Sicilia e Pieve di Soligo, e il Nostro non si sottrasse alla richiesta ma invitatami nella sua casa volle leggere le domande, conoscere l’autore, saperne di più. Iniziò così una serie di telefonate e carteggi tra i due creando un altro ponte culturale. Il giornalista alla fine fu appagato da quelle risposte tanto attese, apparse poi nel suo “Incontri in Sicilia. Testimonianze di vita e di cultura”, documento storico dell’intervista all’ultimo personaggio presente al Convegno, ancora vivente tra i tanti come Montale e Ungaretti. Una prova della sua curiosità e onestà intellettuale, quale vocazione con tutti gli amici-poeti-artisti del tempo. Di Cesare Ruffato, Giorgio Barberi Squarotti, Bino Rebellato, … di cui mi domandava sempre notizie: “Li ha sentiti?”. Io a chiedergli perché il nostro Bino non avesse ottenuto quel successo che avrebbe meritato: era ricordato più come editore, custode delle mura di Cittadella che poeta. Secondo lui aveva pensato troppo agli altri che a se stesso senza saper cogliere le occasioni, cosa che capita a molti che non sono nelle vetrine, rimangono nel sottobosco dove però ci sono i fiori più belli. Affermazioni bellissime in un intreccio di vita, storia, natura. E al famoso Premio Cittadella, organizzato dal carissimo Bino Rebellato, ripreso dopo molti anni di sospensione, erano presenti anche il poeta Andrea Zanzotto con la moglie Marisa, Patrizia Valduga, Giovanni Raboni vincitore dell’anno, grande amico anche lui di Zanzotto. E tante altre figure del bel mondo culturale e devoti come me. Fu l’ultimo premio perché poco dopo Bino ci lasciò. Ma manifestava pure interesse per le piccole cose quotidiane come la mia possibile parentela con una tale Toffanin che vedeva in televisione in programmi serali o notturni a causa della sua insonnia: “una bella tosa”. Ed io purtroppo ogni volta dovevo negare questa parentela anche se era una bella tosa. Per dire, in conclusione, la sua curiosità per ogni aspetto anche del vissuto quotidiano che si potrebbe definire onnivoro. Di questo suo ardore per il vivere (bella parola ardore a me sottolineata perché intensa e piena più di qualsiasi altra del senso vero della vita, vista la sua etimologia) mi dava sempre nuove dimostrazioni. Quel giorno che gli portammo in dono il saggio storico “Sebastiano Schiavon, lo strapazzasiori” scritto da Massimo Toffanin, fu festa ancora nello studio a piano terra: Marisa addirittura ci offrì l’aperitivo e volle due copie del libro per la biblioteca di Venezia visto il valore che entrambi (anche lei era laureata in lettere e preside) davano alla storia come ricerca di verità, soprattutto per questo personaggio, risuscitato dalla ricerca di mio marito, come uno dei fondatori del Partito Popolare, valido interprete della Rerum Novarum ed altro. Di curiosità in curiosità più lievi è da ricordare il suo scarso, quasi nullo, entusiasmo per le mie asclepiadi portate in dono dai boschi alti di Malga Ciapela, attraverso un percorso fantastico che ben ricordo in una poesia (“Passo San Boldo”) (N.B.: POESIA DI ZANZOTTO SULLA DONNA DEL CAPPELLINO ROSSO). All’inizio non disse nulla per mio rispetto, essendoci altre persone, la stessa moglie imbarazzata. Ma al telefono mi apostrofò per aver rubato al bosco degli esemplari protetti e rari da trovare come se non avessi capito uno dei suoi messaggi sull’ambiente espressi anche in “Il galateo in bosco” (1978). Un approccio quindi forte, sincero prova della sua fedeltà a quello che scriveva, della sua coerenza sempre tra opera e vita. Tant’è che più lo frequentavo, più entravo nel suo vissuto, più penetravo nella sua esperienza poetica, nelle Ecloghe (1962), in Vocativo (1981) e più più comprendevo l’affettuosa celebrazione del padre, nello sfondo del Piave, suo maestro di vita, colori, figure, la sua rievocazione sotto i portici di Padova (?), il commosso ricordo della sorella, del fratello Ettore, delle zie in Mistieròi, della moglie Marisa, la memoria di emblematici personaggi di Pieve in “La profezia di Nino”, di Totti del Monte, e dello stesso Toniolo sociologo cattolico. Una filiera di affetti stima, che offre occasione al poeta di percorrere itinerari altri, parentali, paesaggistici, esistenziali, storici, perdendo noi lettori in sentieri del suo pensiero per noi impensabili.  E come esempio cito la bellissima “Ecloga IX – La scolastica” in cui il poeta vuole evidenziare, in una poesia a dialogo, il suo interesse per il mondo della scuola di cui spesso parla, da lui a lungo frequentato, e sul modo di far scuola rafforzando la difficoltà di farsi depositari di qualsiasi varietà e di trasmetterla. Di fronte all’imperativo di un impegno civile di tipo pedagogico il poeta sembra ritirarsi e quasi solo accontentarsi di suscitare negli alunni delle domande sviluppando la capacità critica, anche se la risposta può non essere illuminante. Ricorda pure la figura del padre nella veste di suo insegnante ambientando il tutto nell’atmosfera del Piave ripresa nei primi versi. L’affermazione però finale è di indicare un’ipotesi di funzione sociale della poesia: il suo dono consiste nella stessa ostinazione a sconfiggere il silenzio. Aumentava negli anni la sua confidenza con me anche in relazione a quei famosi festeggiamenti che con ardore Marisa organizzava, a cui anch’io partecipai, in molti luoghi come da Lino Solighetto (li citeremo) ma che per Andrea erano motivo di preoccupazione: temeva, oltre alla grandiosità dell’evento, di stancarsi soprattutto di uscire dalla sua casa anche se poi si divertiva. D’altra parte questo era un po’ il suo atteggiamento sempre, avvertito pure alla loro venuta ad Abano, alle cure termali. Una mattina, una delle sue famose telefonate: “siamo all’albergo tal dei tali io e Marisa, vediamoci oggi pomeriggio per stare un po’ insieme”. Arrivammo con un piccolo dono, trascorrendo alcune ore in piacevole conversazione accordandoci per una cena a casa nostra la sera dopo con uova e asparagi. Altra famosa telefonata la mattina successiva: si scusò per la sua assenza alla cena: lui stava già andandosene dall’albergo e con tono leggermente ironico adduceva come giustificazione che non sopportava, a causa delle cure, il mutamento dei suoi abituali orari, insomma che il suo bioritmo fosse in un qualche modo alterato. In realtà era sotteso in lui, ormai molto anziano, il desiderio di rimanere nella sua insula, nel suo bozzolo, protetto dall’immenso giardino e da tutti quei soldatini che in ottobre riempivano di giallo il cielo, i topinambur che … si affollano al cancello / come a scuola, nel giorno giusto… (CITARE POESIA?) La cena fu fatta lo stesso: Massimo andò a prendere Marisa in albergo e trascorremmo delle ore liete, in compagnia di Mario e Francesca Richter avvertendo certamente l’assenza del poeta. E ora ripensando a Marisa Michieli, che tanto operò per la diffusione dell’opera di Andrea anche all’estero, la rivedo a tagliare l’erba di quel bel giardino rispettando le piante che più adornavano la casa, le lunarie, gli alchechengi e i topinambur, i miei fiori preferiti, protagonisti di non so quante poesie anche di quella che fu letta per prima al convegno di Praglia “Il sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto” (2011). Gli ospiti furono accolti proprio da un mazzo dei fiori più amati dal poeta e Marisa, lì partecipe, riconoscente, poi si effuse in un suo personale contributo. L’evento avvenne ad un anno dalla sua dipartita presagita in qualche modo. Temeva i festeggiamenti ancor più per i suoi novant’anni, me lo disse in una delle nostre visite in quest’ultimo anno diradate perché era stanco, affaticato e aveva bisogno del suo tempo, del suo silenzio. Mi disse, ricevendoci in un altro spazio della sua casa, che gli faceva davvero paura quel compleanno con feste organizzate che lo avrebbero stremato con quell’atmosfera eccitata che lo avrebbe risucchiato. E me lo ripeteva al telefono in brevi conversazioni in cui gli esprimevo tutta la mia comprensione ma anche lo tranquillizzavo: sua moglie, i suoi figli lo avrebbero difeso dall’aggressione dei mass media e da ogni altro eccesso. In quei giorni proprio al Cenacolo di Poesia di Praglia lo ricordavamo con lettura di alcune sue liriche: era un piacere parlare di lui come per fargli compagnia (vedi la poesia famosa LA DONNA DEL CAPPELLINO) ma il suo timore, il suo presentimento, divenne in breve tempo, dopo il compleanno, certezza. Fu ricoverato a Conegliano, ormai il suo ospedale. Lo seguii attraverso contatti con Marisa fino alla sua morte compianta dal mondo intero (vedi RASSEGNA STAMPA, Nonis, Espedito…). Tutti ci sentimmo orfani alla scomparsa di un amico-uomo-poeta umile, semplice, amabile il cui sguardo e sorriso mi ricordavano la dolcezza delle sue colline stemperata sul suo volto. E ad un anno dalla sua dipartita ci furono iniziative di ogni genere per ricordarlo organizzate da parte di università, fondazioni, convegni come il già accennato a Praglia.  A Pieve il duomo il 18 ottobre 2012 era pieno di persone che assistevano al concerto per rendere omaggio a uno dei più illustri poeti del Novecento. Erano lì perché si sentivano suoi amici pur senza esserlo, perché lui gliene aveva dato la sensazione, perché pochi come lui avevano saputo ascoltare e comunicare per la Strada invece che seduti sul comodo divano di un salotto letterario. Erano lì per la nostalgia di un tempo di ideali dimenticati dentro un tempo balordo in cui si fa solo il conto del denaro che è fine e non mezzo. Un tempo di vuoto. E ora che dal rinascimento del dopoguerra siamo caduti in un nuovo medioevo la sua scomparsa ci rende orfani (Massimo Rinaldi in “La nostra Pieve”, periodico trimestrale della Parrocchia di Pieve di Soligo, numero 24, dicembre 2012). E noi come Associazione Levi-Montalcini ci organizzammo per farlo conoscere nelle scuole come uomo, cittadino di Pieve, come cantore della terra, degli umili, come interprete della fantasia creativa di Fellini. Era tanto vasta la sua posizione che agli alunni piacque questa narrazione alternata con letture di Federico Pinaffo che già aveva recitato le liriche del cd allegato agli Atti del Convegno di Praglia. Gli abbiamo pure dedicato il concorso Mia Euganea Terra ideato per le scuole medie con il titolo tratto dal libro da lui prefato “Per colli e cieli insieme mia euganea terra” e ad ogni premiazione era presente anche Marisa Michieli che si intratteneva con la giuria del premio ormai all’XI edizione in momenti conviviali. 

Ora, in questa nuova ondata di programmi, di feste organizzate a Pieve per i 100 anni dalla sua nascita, in questa uscita di contributi critici di ogni genere, io modestamente ho raccolto sull’onda della memoria altri sciami di note emotive emerse dalla nostra amicizia leggera rivisitata liberamente, quindi senza ordine cronologico, arricchendo questi 10 e più anni di frequentazioni e di avvicinamento alla sua opera, di altri segni della sua umanità, del suo atteggiamento quasi evangelico così definito da Mario Richter. Mario lo ricorda ancora a palazzo Maldura con il volto sorridente nell’attesa paziente, tra i tanti studenti, di essere ricevuto dal professore successore di Valeri. Lui non si sentiva in diritto di essere accolto subito ma si sentiva come un allievo di Richter. E così con questo mio contributo mi sono avvicinata ancor di più a lui uomo, a sua moglie Marisa. Al di là però di tutti i percorsi critici, una selva impegnati a sezionare la sua opera, il suo linguaggio, un’accanita ricostruzione e comprensione di essa, io poeta ti lascerei così come un miracolo della tua terra, del tuo pensiero, espanso ovunque: “La poesia di Andrea Zanzotto è infatti coscienza europea: attraversa la lingua-madre del dialetto veneto, medita le “ustioni verbali” del Novecento di Artaud, Michaux, Celan; ricompone la lezione dei classici; collabora con Federico Fellini alla più alta cinematografia di affetti e memoria. Tradotto in francese, inglese, tedesco, Andrea Zanzotto è, oggi, il poeta del “cuore d’Europa”, «Europa melograno di lingue» (com’egli ha definito): da un luogo amato e mai abbandonato, egli parla all’umanità intera, con le “lanugini” della lingua, con il filo ininterrotto della civiltà italiana”. 

Mii accontenterei come al solito di farti un colpo di telefono confidenziale: “Ma tu poeta, uomo del nostro tempo, di tutti i tempi, spirito profetico, cosa pensi di questo stato di assedio virale in cui viviamo? Forse è un effetto di quel progresso scorsoio da te profondamente annunciato, cavallo pazzo sfuggito alla nostra limitata possibilità, forse è una conseguenza della distruzione del sacro da tempo da te presagito?”. Ma tu mi risponderai in altro modo, come hai ben detto in queste parole riportate da Ossola, quasi tuo congedo: “Mi pare di camminare sulle braci senza avvertirlo chiaramente, poi si sente che scotta e allora bisogna spostarsi, i pensieri ossessivi o negativi son sempre là che fanno, non dico un vero e proprio ba-bau, ma insomma… Restano i problemi di sempre: siamo qui perché, per cosa, per come, val la pena non val la pena… ” (tratto da “Nessun Consuntivo – i 90 anni di Andrea Zanzotto”, Carlo Ossola).

* Il Sacro e Altro nella Poesia di Andrea Zanzotto, Praglia, 6 ottobre 2012.